LA SPERIMENTAZIONE CLINICA IN ITALIA ALLA LUCE DEI RECENTI DECRETI ED IN VISTA DELLA DIRETTIVA EUROPEA

 

I decreti ministeriali del 18 marzo 1998 hanno determinato un radicale cambiamento nella procedura di autorizzazione alla sperimentazione clinica in Italia.

Oltre 20 anni fa con i decreti di luglio ed agosto del 1977 e successive disposizioni veniva introdotta la distinzione tra ”farmaci di nuova istituzione”, la cui sperimentazione doveva (e deve tuttora) essere autorizzata dall’Istituto Superiore di Sanità, e ”farmaci non di nuova istituzione”, sui quali cioè già esistevano dati clinici sufficienti per autorizzare una sperimentazione clinica ”allargata”. La dichiarazione di ”notorietà” di questi ultimi è sempre rimasta di stretta competenza del Ministero della Sanità. Negli ultimi anni, dopo che era invalsa la prassi di attribuire alla CUF il compito di autorizzare i singoli protocolli, malgrado il decreto relativo fosse decaduto per mancata reiterazione, gli armadi del Ministero si erano riempiti di centinaia di pratiche con ritardi anche sino a 14-15 mesi nella loro evasione.

Ne è conseguito il dirottamento all’estero (o la cancellazione del segmento italiano) di centinaia di studi clinici, con sensibili perdite di introiti per ospedali e istituti universitari e con tagli di posti di lavoro in aziende e in organizzazioni di ricerca a contratto. Per ovviare a questa ormai insanabile situazione, con i decreti del marzo 1998, il Ministero ha attribuito ai Comitati Etici (CE) il compito di procedere alla delibazione, cioè di stabilire se il medicinale di cui viene chiesta la sperimentazione possa essere esentato dagli accertamenti previsti per i medicinali di nuova istituzione.

Non vi erano d’altronde vie di uscita: l’arrivo della Direttiva Europea, prevista per la fine del 1999 o inizio del 2000, porrebbe vincoli temporali incompatibili con le lunghissime procedure autorizzative di un organo ministeriale centrale, per di più dotato di personale del tutto insufficiente a svolgere tale compito, né sembra in Italia applicabile per motivi di tutela della salute pubblica il sistema del silenzio/assenso.

Si poteva naturalmente decidere di abolire la delibazione (procedura esistente solo in Italia) e attribuire ai CE, come avviene in altri paesi, tutti i compiti tecnico-scientifici e di tutela del paziente connessi agli studi clinici. Si è preferito scegliere una via intermedia, lasciando che sia il CE ad autorizzare i singoli protocolli, ma mantenendo nel contempo anche la procedura della delibazione che è stata girata agli stessi CE: questi debbono quindi stabilire se sussistano sufficienti conoscenze sul medicinale da consentirne la esenzione dagli accertamenti da parte dell’Istituto Superiore di Sanità, tuttora richiesta per i prodotti che non siano mai stati saggiati nell’uomo. Quale orientamento ha indicato il Ministero in proposito?

Il criterio seguito è sostanzialmente quello di autorizzare ciò che gia si sta facendo altrove o che è analogo, per dosaggi e durata di trattamento del medicinale, a ciò che altrove altri hanno autorizzato. A prima vista può sembrare una soluzione ”coloniale”, tuttavia occorre tenere conto di alcuni elementi. Anzitutto, sempre più in Italia si studiano prodotti provenienti dall’estero i quali sempre dispongono di una fase I completata ed in genere anche di abbondanti dati di studi di fase II e talora anche III, mentre vieppiù esiguo è il numero dei prodotti nuovi originati nel nostro paese che vanno per la prima volta nell’uomo. Questo è sicuramente un aspetto molto negativo, causato dallo smantellamento della ricerca farmaceutica industriale in Italia, sul quale si è molto discusso ma per il quale resta ormai ben poco da fare. Cerchiamo quindi almeno di potenziare al massimo la ricerca clinica facendo partecipare i nostri centri alle sperimentazioni internazionali con i nuovi prodotti che le multinazionali farmaceutiche sviluppano.

Secondariamente (questo è l’aspetto positivo) la prossima Direttiva Europea andrà proprio nella direzione presa dal nostro Ministero, facendo del CE l’organo autorizzativo cardine in ogni paese attraverso un sistema che prevede la semplice notifica alle Autorità Sanitarie. Per una volta quindi va riconosciuto che, invece di elucubrare i soliti bizantini provvedimenti di retroguardia cui ci aveva per anni abituato, il nostro Ministero si è mosso d’anticipo preparando già il campo all’arrivo della Direttiva Europea.

La domanda che ora molti si sono posti è se i CE siano in grado di svolgere il nuovo compito loro affidato dal Ministero. Questo, molto opportunamente, ha raccomandato nel decreto che non vi sia una eccessiva frammentazione e proliferazione di CE, allo scopo di non disperdere le competenze disponibili e che, ogniqualvolta sia possibile, nei CE siano presenti competenze importanti per formulare il giudizio di notorietà, come quelle del farmacologo, dell’esperto in bioetica, del biometrista con esperienza in studi controllati randomizzati.

Va d’altra parte considerato che il compito di procedere alla delibazione spetta, in base ai decreti, al CE della struttura ove ha sede lo sperimentatore coordinatore (nel caso di studi multicentrici) o lo sperimentatore responsabile (nel caso di studi monocentrici). Tenendo presente che gli studi policentrici sono ormai la regola nello sviluppo di fase II e III, si può quindi ipotizzare che saranno chiamati a svolgere le procedure di delibazione i CE dei centri di maggiore rilevanza scientifica dove si può presumere si trovino anche le adatte competenze o dove comunque queste possono facilmente venire cooptate.

E’ anche opportuno precisare che cosa si debba intendere per ”notorietà” e quali implicazioni ciò possa avere. Come gia detto sopra, i decreti forniscono dettagliate ”linee guida” su come procedere a stabilire la notorietà: il CE non è chiamato ad essere un mini-Istituto Superiore di Sanità dedito ad approfonditi esami delle documentazioni farmacotossicologiche, farmacodinamiche e cliniche sul prodotto, ma deve solo verificare se sono presenti delle ”condizioni di affidabilità” specificate nel decreto, essenzialmente consistenti nella autorizzazione allo stesso protocollo o a studi della stessa fase da parte di altri paesi aderenti allo Spazio Economico Europeo ovvero di Australia, Canada, Nuova Zelanda o USA. Si tratta quindi di verifiche più di ordine amministrativo che scientifico le quali saranno ovviamente facilitate dalla documentazione della esistenza di tali requisiti che lo ”Sponsor” non mancherà di evidenziare con la massima cura.

D’altronde, se qualcuno in passato ha ritenuto che la delibazione ministeriale equivalesse ad una specie di liberatoria dalle responsabilità dei CE, ha commesso un grossolano errore. II Ministero si è sempre limitato ad autorizzare un piano generale di sperimentazione, senza entrare nel merito dei singoli protocolli (tranne il periodo in cui ciò fu fatto dalla CUF). E’ quindi sempre stato compito dei CE giudicare se la sperimentazione

che veniva richiesta fosse compatibile con i dati farmacotossicologici e possedesse un razionale farmacologico e terapeutico. Questo compito primario dei CE è ben definito nel DM del 15 luglio 1997 che ha recepito le Norme di Buona Pratica Clinica le quali stabiliscono che responsabilità primaria del CE è quella di ”...garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere dei soggetti coinvolti in uno studio clinico e di fornire pubblica garanzia di tale protezione”. Non occorre essere degli esperti giuristi per comprendere l’importanza della espressione ”pubblica garanzia” e di tutte le implicazioni che essa sottintende anche sotto il profilo delle responsabilità legali.

Notorietà significa quindi che sul prodotto esistono già dati clinici relativi alle indicazioni che si intende studiare, che esso è autorizzato alla sperimentazione altrove, che lo studio di cui si richiede l’approvazione sarà eseguito anche in altri luoghi fuori d’Italia, non significava e non significa che il Ministero o un CE garantiscono che il prodotto sarà esente da effetti indesiderati e sicuramente efficace: questo deve appunto stabilirlo la sperimentazione richiesta. Indipendentemente quindi dal fatto che il medicinale sia o no definibile come ”noto”, resta per il CE il compito fondamentale di valutare se la singola sperimentazione presenti un rapporto favorevole tra benefici attesi e possibili rischi nel campione di pazienti definiti dal singolo protocollo.

Questo vale oggi dopo i decreti come valeva ieri prima dei decreti, in Italia e negli altri paesi dove il temine delibazione neppure esiste. D’altra parte, e questa, come gia detto, la strada presa dalla UE: l’orientamento della Direttiva, in avanzata gestazione e di stabilire un sistema di autorizzazione alla sperimentazione basato sull’approvazione del CE (di un solo CE per paese in caso di sperimentazione internazionale) con notifica al Ministero. I paesi dove ora vige, seppure semplificato e molto più rapido che in Italia, un sistema di autorizzazione centrale, dovranno adattare questo a quanto richiesto dalla Direttiva, pena l’esclusione dai trial internazionali.

Restano da fare brevi considerazioni relative ad alcune fasi della sperimentazione clinica in Italia. I DM del marzo ’98 si applicano agli studi di fase II e III, oltre che a quelli di bioequivalenza e biodisponibilità. Restano quindi esclusi dalla nuova normativa gli studi di fase I e IV, regolamentati rispettivamente dalla legge dell’agosto 1973 e relativi decreti di luglio ed agosto 1977, e dal DM 4 dicembre 1990 che consente l’avvio dello studio decorsi 30 giorni dalla comunicazione inviata al Ministero della Sanità. Va pero anzitutto notato che la Direttiva, almeno nel suo testo attuale, parla solo di ”clinical trials” senza fare distinzione tra studi delle diverse fasi. Si potrebbe perciò ipotizzare che, al momento del recepimento della Direttiva, le norme da essa previste debbano estendersi anche agli studi delle altre fasi. Come è noto, attualmente solo pochissimi farmaci vanno alla fase I in Italia a causa dei motivi più sopra ricordati: da un lato la progressiva forte riduzione di nuove molecole originate da laboratori nazionali, dall’altro i ritardi e le limitazioni da parte dell’Istituto Superiore di Sanità che hanno indotto a portare fuori d’Italia anche questi studi. Non si vede quindi quale possa essere l’utilità di un nuovo decreto sulla fase I che ripercorra sostanzialmente gli schemi del vecchio documento ”Ambrosioni-Massotti” e che rischia di venire alla luce gia superato dalla Direttiva.

Per quanto riguarda gli studi di fase IV, da tempo gli addetti ai lavori fanno notare la necessità che anche in Italia, come avviene in tutti gli altri paesi d’Europa, ad essi possano partecipare anche i Medici di Medicina Generale e gli specialisti non operanti nelle strutture ospedaliere ed universitarie oggi autorizzate alla sperimentazione. II motivo è che con sempre maggiore frequenza patologie anche importanti e diffuse vengono oggi seguite ambulatoriamente, dal momento che i centri di ricovero sono sempre più specializzati e tenuti ad operare secondo criteri di gestione che impongono ricoveri brevi, una volta terminata la fase diagnostica. Diviene perciò difficile reperire in questi centri adeguate casistiche in patologie croniche o di gravità tale da richiedere il ricovero o il ricorso all’ambulatorio specialistico. Si è quindi costretti ancora una volta ad eseguire questi studi fuori d’Italia con perdite di natura economica e culturale (si pensi ad esempio agli studi nell’ipertensione e nel diabete eseguiti dai gruppi di practitioner e di specialisti in Gran Bretagna ed in Germania).

La Direttiva potrebbe perciò rappresentare l’occasione propizia per rivedere anche questo settore e portarci definitivamente in linea con gli altri paesi d’Europa.

                                                                                         

                                                                        Luciano M. Fuccella

                                                                       Direttore Scientifico,

                                                                    Medicina Domani Pharma, Milano

 

 

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